Il mestiere di archivista

“Di che ti occupi di bello?”

Mi occupo di archivi. Mi occupo di archivi e di valorizzazione delle fonti storiche. Per gli addetti ai lavori è tutto chiaro come il sole. Ma dagli occhi sgranati o dai commenti un po’ strambi dei profani che mi chiedono “di che ti occupi di bello?” capisco che  di chiaro c’è poco. E’ come se dicessi: mi occupo dell’attività sindacale delle formiche. O della vita sociale degli elefanti.

A volte per tagliare corto rispondo che mi occupo di storia. Che non è vero. Studiare i documenti per cogliere il senso ultimo dei fatti, dei pensieri, delle azioni di chi ci ha preceduto è una cosa, lavorare sulle carte per sistemarle e descriverle in modo che altri possa cogliere il senso ultimo di cui sopra è tutta un’altra. Sono lavori concettualmente e fisicamente diversi. Interpretare è il verbo dello storico. Mettere a disposizione è quello dell’archivista.

Se sono fortunata alla domanda “di che ti occupi di bello” e alla relativa risposta “mi occupo di archivi”, segue un commento classico, a cui per buona sorte sono preparata: “anch’io ho tanti libri antichi di mio nonno”. Non c’è molto da fare. Una volta rispondevo piccata: “gli archivi non sono biblioteche!”. Ora accenno un sorriso e dico a mia volta: “anch’io ho molti libri vecchi comprati ai mercatini delle pulci”. Vabbè, l’età porta consiglio e ho imparato che certe partite sono perse in partenza.

Insomma: di che mi occupo? Di archivi, anche se in pochi sanno cosa sono. A voler essere precisi, dovrei rispondere che mi occupo di archivi in tutte le accezioni: di archivi di persone, di famiglie e di istituzioni, e fra queste degli archivi di tutte le istituzioni possibili – pubbliche e private, enti di stato ed enti locali, associazioni, cooperative, consorzi, enti vari a volte difficilmente “definibili”.

E poi: mi occupo di archivi correnti, di deposito, storici. Prevalentemente mi capita di lavorare su archivi storici, ma non solo. L’alternanza tra il vecchio e il nuovo, tra la fase di formazione dell’archivio e quella finale della conservazione e della valorizzazione, costituisce uno dei motivi per cui mi piace il mio lavoro. La trovo esaltante, entusiasmante. E’ come riconoscere un filo rosso che lega tutto, dalla pergamena al protocollo informatico. E’ anche il nodo cruciale della mia professione: occuparsi di tante cose diverse, mantenendo un centro, conservando in tutto quel che si fa l’idea che l’archivio è uno, che l’archivio è l’archivio. Bella tautologia. Fosse semplice!

“Ma poi, in parole spicciole, cosa fai?”

E’ la domanda-corollario alla prima, che suonava “di che ti occupi di bello?”. Spiegare che cosa fa l’archivista è un’impresa dall’esito incerto e anzi generalmente infausto. Ma di solito, se si è arrivati fin qui, vale la pena prodigarsi nella risposta. Non si può mai sapere.

Cosa faccio io per fregiarmi del titolo di archivista?

  • Riordino (che non è mettere in fila quattro carte come piace a me),
  • inventario (che non è catalogare libri a stampa o scrivere quello che mi talenta),
  • opero la selezione conservativa – vulgo scarto, che poi è il rovescio della medaglia – (che non è buttare in pattumiera quello che è sporco, scompagnato o che “non ci sta più”, ma è selezionare ciò che è importante per la memoria storica),
  • cerco di mettere in atto le procedure per conservare il più a lungo possibile i documenti (che non è metterli in cassaforte ma, se occorre, anche),
  • definisco (o almeno cerco di definire) le procedure per l’accesso alle informazioni contenute nei documenti nel rispetto della normativa vigente (la privacy, avete presente?),
  • razionalizzo la dislocazione dei documenti nei depositi, in modo che occupino uno spazio “logico” e funzionale, che ne consenta l’ottimale fruizione (la logistica, nel mio lavoro, è tutto),
  • mi occupo di quell’opera meritoria – e talora faticosissima, ma comunque piena di soddisfazioni – che si chiama servizio all’utenza, ossia spiego a chi viene a consultare le carte per una ricerca, come fare a trovare ciò che cerca (e che non basta dire “voglio tutto quello che avete su Mario Pincopallino, che era il mio bisnonno e che è sempre stato un galantuomo”).

Tutto questo non sempre, non in ogni incarico, ma a seconda degli incarichi. Le operazioni però non si esauriscono qui. Alcune sono operazioni standard, che uno sa essere connaturate al lavoro d’archivio e non “rileva” neanche più. Movimentare quintali di materiale, per esempio, spesso sporco e spessissimo pesante, con carrelli dalle ruote malfunzionanti o a braccia. Del resto l’archivista, come mi hanno insegnato, deve avere un fisico da scaricatore di porto e non può avere paura di sporcarsi.

Oppure “condizionare” il materiale, ossia metterlo in cartelle, incamiciarlo (= mettere la copertina ai fascicoli compilandola), stampare e attaccare centinaia di etichette tenendo conto di tutte le possibili esigenze del committente (che sono semplicemente infinite).

La stessa operazione “principe” dell’archivista, secondo l’insegnamento che ho ricevuto, si declina in una quantità di varianti: ci sono semplici schedature preliminari ad un lavoro futuro (che spesso non si farà per mancanza di fondi), inventari analitici (che possono arrivare a descrivere singole carte), censimenti (che è come dire: faccio una fotografia di quello che c’è, più che altro per fornire dati quantitativi), elenchi sommari, guide più o meno particolareggiate, inventari topografici…

E poi c’è la creazione delle banche-dati, per lo più (ma non sempre) su software appositamente costruiti per accogliere le descrizioni inventariali.

Lavorare sui soggetti produttori, ricostruire la loro storia, studiare le competenze nel caso di enti e la normativa che ne ha regolato l’attività, recuperare dai documenti le vicende di famiglie e di persone, definire i rapporti che hanno intessuto con la società dell’epoca, descrivere le loro proprietà, le loro attitudini, costituisce un’altra delle operazioni standard dell’archivista. Qui entriamo nella parte nobile del lavoro: ci si toglie il camice e si studia, molto e faticosamente eppure con una soddisfazione tanto maggiore quanto più le informazioni tratte dai documenti che abbiamo riordinato e descritto si integrano e si fondono con naturalezza con le indagini storiografiche precedenti.

Poi il testimone passa allo storico e l’archivista si fa da parte o rimane, se può, per guidare il reperimento delle carte e rendere più celere e funzionale la ricerca. Mai per influenzare l’interpretazione delle fonti. Questo non spetta all’archivista.

(Ermis)

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