Storie dagli archivi

Storie di ordinaria umanità

Le storie sono ciò che rende il mio lavoro speciale. Speciale e unico, almeno per me.

Sono storie per lo più piccole piccole, che si nascondono nei documenti e saltano fuori quando meno te l’aspetti. Di solito sono storie di ordinaria umanità, che hanno per protagonisti uomini e donne comuni, senza nulla di particolare se non il fatto d’essere vissuti.

Altre volte sono storie di uomini e donne importanti, che in qualche documento riescono a mostrare il lato umano di sé. Non è facile, se si è titolati. Soprattutto non è facile che ne rimanga traccia nelle carte d’archivio.

Poi ci sono le storie “giudiziarie”: un galantuomo o un criminale incallito commettono un reato grave – per amore, per invidia, per disperazione, per un ideale – li acciuffano e la loro storia rimane imbrigliata nei documenti di tribunali e corti d’assise. Queste storie sono di solito molto corpose, fatte di carte e carte, a volte di volumi interi.

Come si trovano le storie?

Per caso o per mestiere, ovvero per incarico. Per caso si trovano di solito a fine giornata, quando si è stanchi, ci si distrae e ogni scusa è buona per non finire quel che si deve finire. Allora capita di buttare l’occhio fra le carte – un occhio diverso da quando si riordina o si scheda – e di mettersi a leggere perché una parola o qualche ghirigoro ci ha attratto.

Le storie nei documenti sono alla portata di tutti e tuttavia sono visibili solo a chi le sa trovare. Occorre in altre parole una certa sensibilità. A cosa non so bene, forse semplicemente alla vita e alle sue sfumature. Occorre anche una dose massiccia di immedesimazione, al di là delle distanze temporali e spaziali che ci separano dalle vicende. Bisogna provare “compassione”, ecco. Non è da tutti.

Fare l’archivista aiuta, certo, se non altro per la quantità di carte di ogni genere che ci si trova a maneggiare. Talora i documenti sono “intonsi”, mai toccati, come cristallizzati nel momento in cui chi li ha prodotti li ha archiviati  o semplicemente accantonati. Qui è più facile che sia l’archivista a mettere le mani. E qui è bellissimo trovare storie. E’ il piacere della scoperta.

Io inseguo le storie

Io inseguo le storie fin da bambina. Erano le storie della tradizione orale. Mia nonna era una formidabile narratrice di fatti di paese e cronache di famiglia. Sono cresciuta con la storia della ragazzina a cui la madre stringe il collo sotto il coperchio di una cassa, perché non voleva smettere di fare la spia al padre. La ragazzina muore dopo venti giorni di agonia, proprio lì, nella casa dove ora c’è la casa dei miei genitori, in un anno indefinito dei primi del secolo scorso.

Non ho fatto in tempo con mia nonna, ma con mio nonno sì: ho raccolto le sue storie – il racconto della sua vita e del suo paese – in un’intervista di tre giorni in uno dei suoi ultimi anni. Con un antiquato registratore che avevo usato per le lezioni di glottologia all’università e che faceva più rumore di un carrarmato. Ero già un’archivista, conoscevo l’importanza di salvaguardare la memoria.

Poi sono venute le storie negli archivi, nei fondi che riordinavo o che trattavo per i vari incarichi. Le storie le ho appuntate nella mente, anno dopo anno, per poterle ritrovare un giorno. Non le dimentico. So che le infioro col passare del tempo, e ne muto l’interpretazione col mutare della mia esperienza di vita. Però non le scordo. Mi colpiscono sempre come la prima volta quando ritrovo i documenti.

“I documenti raccontano”

C’è stato un periodo in cui la passione per il mio lavoro e la passione per le storie si sono “unite”: sono stata incaricata di trovare storie nei fondi d’archivio. E’ stato per il progetto della Regione Lombardia “I documenti raccontano”. Ho lavorato in particolare in Archivio di Stato a Milano, sui fascicoli processuali della Corte d’Assise: un pozzo senza fondo di storie, per lo più terribili, commoventi, profondamente toccanti nelle sfaccettature di umanità e disumanità che mostravano. Storie complesse, da ricavare da centinaia di carte (verbali di polizia, atti processuali, fotografie, lettere, oggetti vari allegati ai fascicoli), di cui comprendere l’iter, definire le procedure, stabilire le connessioni.

Qui è stato importante essere un’archivista. Ma poi occorreva qualcosa di più: la capacità di cogliere – fra le tante vicende – quelle che meglio si prestavano a essere raccontate, che potessero fornire materiale per la didattica nelle scuole, per laboratori di scrittura creativa, per esperienze di narrazione in libri o racconti, in cui le storie emergessero con chiarezza dalle fonti e ne divenissero protagoniste, lontano dagli schemi paludati della ricerca accademica.

Ma poi, quali storie?

Di tutto, di tutte le epoche. Nella mia memoria le storie sono annotate secondo gli  incarichi di lavoro che svolgevo quando le ho trovate. Non sono tematizzate, categorizzate. Le richiamo pensando a quello che facevo.

L’inventariazione di alcune serie del Carteggio visconteo-sforzesco in Archivio di Stato di Milano, per esempio, ne aveva fatto affiorare un bel po’. Piccole storie come quella racchiusa nella supplica di una vedova con un figlio fannullone e scapestrato, che ha assunto la mansione di carnefice. O la storia dello scultore che durante la peste si innamora di una fanciulla e la sposa, ma che vede sul più bello ricomparire la prima consorte, già creduta morta. O la vicenda della vedova ingannata da un mascalzone lodigiano, che le promette il matrimonio e le ruba gli averi.

Sempre in Archivio di Stato a Milano, durante un altro incarico, era emersa per caso la storia di Domenico e Lodovica, lui artigiano incaricato di aggiustare l’organo di un monastero, lei monaca, nella Piacenza di metà cinquecento. Una storia d’amore e di sesso, che si era conclusa con un bimbo in fasce esposto alla ruota dell’ospedale grande e Domenico catturato di notte dal bargello, imprigionato e torturato.

Dalla vicenda di Domenico e Lodovica era stato poi tratto un dossier per “I documenti raccontano”, progetto che mi aveva portato a lavorare sui fascicoli processuali della Corte d’Assise di Milano dei primi anni Trenta. Fra le tante storie ne avevo scelto alcune che mi avevano colpito perché in qualche modo esemplari, paradigmatiche e ricche – talora ricchissime- di particolari umani. Come l’omicidio insensato di una giovane guardia nel quartiere Isola di Milano ad opera di un balordo. O la storia di un piccolo delinquente di origini italiane a Marsiglia, condannato e poi evaso dalla Guiana con una fuga rocambolesca. O la vicenda tristissima di una ragazza di un paesino della provincia di Sondrio, vittima di un aborto procuratole da una mammana. E ancora la storia di due litigiosi amanti e quella, quasi grottesca, del gruppetto di sciagurati che si riuniva all’orinatoio di Largo Cairoli a Milano, specializzato in ricatti ad omosessuali.

Ad altri periodi e ad altri lavori risale la scoperta della storia segreta dell’irrequieta Caterina Gabrielli, virtuosa del bel canto nel Settecento, recuperata sempre tra i fondi dell’Archivio di Stato di Milano. Poi ci sono i quaderni di scuola del piccolo Francesco, conservati a Bergamo e la storia della fuga clandestina di quattro giovani dal Lombardo Veneto per vedere l’America, recuperata a Lodi, presso l’Archivio Storico Comunale.

Storie così. Ho sempre l’illusione di trovare il filo rosso che le lega, che mi spieghi perché proprio queste storie si sono fatte trovare da me, mi hanno scelto, per così dire. Ma sono elucubrazioni che faccio con un sorriso.

(Ermis)

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